Buddhismo. Religione senza religione by Alan Watts

Buddhismo. Religione senza religione by Alan Watts

autore:Alan Watts [Watts, Alan]
La lingua: ita
Format: epub, azw3
Tags: Philosophy, Buddhist, Religion, Buddhism, General, History, Tibetan, Zen, Essays
ISBN: 9788867084333
Google: _CExCwAAQBAJ
editore: Lindau
pubblicato: 2015-09-23T22:00:00+00:00


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Il buddhismo come dialogo

Voglio ora affrontare la particolare sottocategoria del buddhismo mahāyāna conosciuta come buddhismo zen.

Lo zen si diverte a giocare con noi. Quando io o una persona come D.T. Suzuki parliamo dello zen, tutti dicono che poiché ne stiamo parlando non lo comprendiamo. Nelle parole di Laozi, «Chi sa non dice; chi dice non sa», ma malgrado ciò scrisse un libro di circa ottanta capitoli per spiegare il tao e il te, il suo potere. Non possiamo farci nulla; dobbiamo parlare: gli esseri umani sono dei chiacchieroni. Quando abbiamo qualcosa in mente, dobbiamo parlarne, anche se non sappiamo spiegare esattamente cosa intendiamo.

La poesia è il linguaggio supremo. È l’arte di dire ciò che non può essere detto. Ogni poeta sa che sta cercando di descrivere l’indescrivibile, e sa anche che nulla è descrivibile. Che si analizzi un’esperienza mistica ineffabile da un lato o un chiodo arrugginito qualsiasi dall’altro, nulla è davvero descrivibile. Secondo il famoso conte Korzybski, «Qualunque cosa diciamo che una cosa è, in realtà non lo è».

Alla Northwestern University c’era un professore che davanti alle classi tirava fuori una scatola di fiammiferi e chiedeva: «Che cos’è?» e gli studenti rispondevano: «Una scatola di fiammiferi». Allora lui diceva: «No, no. “Scatola di fiammiferi” è un rumore. Questo è un rumore? Che cos’è davvero?». E per farli rispondere, gliela lanciava. Ecco cos’era.

Quindi nulla può essere davvero descritto, eppure tutti sappiamo benissimo che cosa intendiamo quando parliamo. Se abbiamo condiviso un’esperienza con qualcuno, ovviamente possiamo parlarne: tutti possiamo parlare del fuoco, dell’acqua, dell’aria e del legno perché sappiamo cosa sono, e non vi è alcun mistero. Allo stesso modo si può discutere anche di qualcosa di esoterico come lo zen. Tuttavia, i seguaci dello zen giocano con le parole e preparano tranelli per mettersi alla prova a vicenda. Ricordo la prima volta che incontrai Paul Reps, autore del bellissimo libro Zen Flesh, Zen Bones. Mi disse: «Ormai hai scritto un bel numero di libri, penserai di essere molto in gamba». Risposi: «Non ho detto una parola». Si tratta di un semplice gioco zen in cui ci si confronta. Una poesia recita: «Quando due maestri zen s’incontrano per strada, non servono presentazioni; i ladri si riconoscono subito a vicenda».

Se dovessi farvi un discorso davvero corretto e colto riguardo allo zen, vi radunerei a sedere tutti in silenzio per cinque minuti e poi me ne andrei. Sarebbe una spiegazione molto più diretta di quella che farò ora parlandone; tuttavia temo che vi sentireste delusi e in un certo senso imbrogliati se me ne andassi dopo cinque minuti di silenzio.

La parola zen è la scorretta pronuncia giapponese della parola cinese chan, che a sua volta è la pronuncia scorretta della parola sanscrita dhyāna. Dhyāna è un termine molto difficile, se non impossibile, da tradurre. È stata resa con «meditazione», ma in genere meditare significa sedersi in silenzio e pensare a qualcosa, e lo zen non è questo. «Contemplazione» potrebbe avvicinarsi di più, se usiamo la parola nel senso molto tecnico ancora in uso tra i mistici cattolici.



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